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DONNA-ORSO |
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Tra i Dakota del Canada, un ragazzo che voleva entrare a tutti gli effetti nella vita adulta, poteva sottoporsi a un rituale, nel corso del quale egli “faceva l’orso”. Si costruiva un simulacro della tana dell’animale, con quattro sentieri che, dipartendosi da essa, conducevano verso le quattro direzioni del cosmo e il candidato vi passava un certo tempo in meditazione. Poi veniva fatto uscire con una pantomima che imitava una caccia all’orso, durante la quale egli veniva simbolicamente abbattuto (Wallis 1947: 64-65). Anche in questo caso, secondo il pensiero indigeno il candidato non si limitava a una semplice imitazione dell’animale, bensì si pensava che si trasformasse effettivamente in un orso, la cui uccisione rappresentava il momento della sua ri-trasformazione in essere umano. Da questa esperienza di trasformazione, l’individuo otteneva un potere rinvigorente, un incremento di energia e nuove qualità che gli consentivano di accedere alla sua nuova condizione di adulto ottenendo il riconoscimento sociale dell’avvenuta metamorfosi. In questo senso, l’esperienza trasformativa costituiva il nucleo centrale del processo di costruzione della personalità.
Queste tradizioni sono straordinariamente simili a quanto sappiamo avvenisse nell’antica Grecia presso il santuario di Artemide a Brauron, vicino ad Atene. Un gruppo di fanciulle, in prossimità dell’età puberale, risiedeva per un certo tempo presso il santuario, dove si sottoponeva all’arkteia, ossia una prestazione rituale nel corso della quale esse dovevano imitare le orse, o, per meglio dire, divenire “orse” (arktoi) (Brelich 1969: 229 sgg.). La spiegazione mitica del rituale raccontava di un’orsa che era stata uccisa, dopo aver ferito una ragazza. L’oracolo di Delfi ordinò che le ragazze ateniesi, da allora in avanti, avrebbero dovuto “fare le orse” durante il “rituale dell’orsa” (arkteia). E’ molto improbabile che in epoca classica questa cerimonia coinvolgesse tutte le ragazze della città di Atene, più probabilmente si trattava soltanto di alcune fanciulle, scelte con criteri che non sappiamo, che dovevano rappresentare tutte le loro coetanee (Dowden 1989: 33-34). È anche possibile che fossero le sacerdotesse che guidavano il rito ad essere chiamate “orse”, come le loro giovani allieve.
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