Illustrazione
da un manoscritto del VII secolo dell’opera De Materia Medica,
del medico greco Dioscoride, conservato presso la Biblioteca Nazionale
di Napoli (Cod. Gr. 1). Vi viene raffigurata la pianta della mandragora,
alla quale fin dall’antichità venivano attribuite qualità
afrodisiache e che veniva usata per combattere la sterilità.
Nell’Antico Testamento viene fatta menzione della pianta, che
in ebraico porta il nome di duda’im, “pianta dell’amore”.
Una diffusa credenza era quella secondo cui la pianta, quando veniva
sradicata, emetteva un terribile grido, che avrebbe ucciso chi l’aveva
colta (di cui si trova menzione in Shakespeare, Romeo e Giulietta,
atto IV, scena III). La particolare conformazione della radice suggerisce
infatti un aspetto antropomorfo della pianta, un homunculus.
Già nell’antichità se ne conoscevano le proprietà
farmacologiche e anestetiche e veniva impiegata in chirurgia fin dal
IX secolo. Una tradizione medioevale associa l’uso di un unguento
estratto dalla radice di mandragora con il volo che portava le streghe
al sabba. Secondo l’umanista spagnolo del XVI secolo Andrés
Laguna, le proprietà allucinogene della pianta producevano nei
soggetti che ne facevano uso l’illusione di potersi spostare in
volo e di vedere cose straordinarie, spiegando così il fenomeno
dei sabba stregoneschi. Questa teoria è stata ripresa dall’antropologo
Michael J. Harner, il quale ritiene che la maggior parte dei fenomeni
di volo magico e di trasformazione in animale, che si trovano nei documenti
relativi alla stregoneria medioevale e moderna, siano dovuti all’impiego
di piante appartenenti alla famiglia delle Solanacee, come la mandragora,
la belladonna o il giusquiamo, le quali contengono sostanze dai potenti
effetti allucinogeni (Harner 1973).
[Immagine: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:NaplesDioscuridesMandrake.jpg]